La tecnica dell’iconografia ha origini molto antiche, ce lo confermano diversi manoscritti che sono stati provvidenzialmente conservati e che sono per noi fonti importanti per la documentazione e la ricerca. Gli autori di questi codici, almeno i più antichi, erano monaci;
nei monasteri bizantini costituivano lo strumento che permetteva di trasmettere ai nuovi artisti-monaci le regole e le tecniche dell’arte sacra garantendo la perfetta continuità della tradizione. Lo stesso vale per le grandi abbazie sorte a partire dal IX secolo in occidente, dove si applicava la regola benedettina dell’ora et labora e dove fu salvata molta parte della cultura antica, greca e latina ( quanti lo ignorano ).
Nei monasteri vi era un’ambiente nel quale i monaci scrivevano e dipingevano, lo scriptorium ( io trovo bellissimo quello che si può visitare presso il monastero di Fonte Avellana, dove Dante ha composto il Paradiso e ultimato la sua Divina Commedia).
Gli ordini monastici portavano avanti una ricerca scientifica empirica in diversi campi dell’attività umana, dall’agricoltura alla farmacologia e naturalmente anche le arti. La spinta a voler migliorare la qualità delle materie e il loro uso era legata al fatto che il monaco, dedicando la vita alla preghiera, voleva che tali strumenti fossero sempre più adeguati ad esprimere un culto di lode e di ringraziamento a Dio. Così la tecnica della pittura su tavola, su muro, la ricerca sui pigmenti e altre sostanze coloranti è stata via via perfezionata, del resto non erano assenti contatti tra abbazie, anche molto distanti, questo portava l’artista-monaco desideroso di migliorare a lunghi, faticosi e spesso pericolosi viaggi per aggiungere nuove conoscenze alla sua arte.
È’ grazie ai loro scritti che troviamo fissata su pergamena la minuziosa descrizione di un patrimonio prezioso fatto di indicazioni, ricette, consigli, acquisito a prezzo di tante fatiche e proprio per questo animati poi dal vivo desiderio di trasmettere il loro sapere ad allievi avviati a intraprendere, per talento o per obbedienza, lo stesso arduo cammino.
Scrive l’autore del Diversarum Artium Schedala:
“Teofilo, umile prete, servo dei servi di Dio, indegno del nome e della professione di monaco,…o figlio carissimo, dato che Dio ti ha reso pienamente felice concedendoti gratuitamente tutto ciò che molti altri ottennero soltanto dopo sforzi immani, dopo aver solcato i flutti marini con grandissimo rischio della vita, esposti ai rigori della fame e del freddo, ovvero piegati dalla lunga schiavitù della scuola e comunque tormentati dal desiderio di apprendere, questo saggio su diverse arti vagheggia con avidi sguardi, leggi con memoria ferrea, abbraccia con ardente amore…
Se rileggerai spesso questo saggio e te lo imprimerai bene in mente, in ricompensa dei miei insegnamenti ti chiedo di rivolgere per me una preghiera alla misericordia di Dio onnipotente ogni volta che ti sarà utile questa mia fatica. Egli sa che non ho scritto queste note né per amore di lode umana, né per desiderio di ricompensa temporale; sa che non ho sottratto niente di prezioso o di raro per malignità gelosa e che non ho taciuto niente da riservare a me solo; ma, per far crescere l’onore e la gloria del Suo nome, sono venuto incontro alle necessità di molti e ho contribuito ai loro progressi”.
L’autore anonimo del De Arte Illuminandi scrive: “…affinchè gli esperti si confermino nelle loro opinioni per avventura migliori e gl’inesperti, bramosi di apprendere quest’arte, possano facilmente e chiaramente intenderla e praticarla, io esporrò succintamente, trattando dei colori e del vario modo di temperarli, le cose esperimentate e riconosciute per buone.”
Lo stesso S.Luca evangelista, ritenuto dalla tradizione il primo iconografo, viene talvolta rappresentato in uno scriptorium e altre volte in un atelièr di pittore.
Ecco un breve compendio. Le immagini sacre furono realizzate prevalentemente a mosaico, ad affresco, a tempera su tavola. Per le icone su tavola le essenze più utilizzate in passato furono latifoglie come il tiglio e il pioppo, e conifere come l’abete e il larice, in Russia fu molto usata la betulla. E’ importante che la sezione da cui si ricava la tavola sia radiante rispetto al centro del tronco e non tangente, così avrà meno propensione a incurvarsi.
In ogni modo tale inconveniente viene efficacemente contrastato applicando delle traverse nella parte posteriore della tavola.
Sulla superficie destinata alla ingessatura venivano fatte delle incisioni al fine di facilitare l’adesione di una tela mediante una colla animale, su questa si stendeva lo strato di gesso che non venendosi a trovare a contatto con il legno non risentiva dei movimenti a cui questo va soggetto nel tempo.
Sulla tela si iniziava poi a stendere un’impasto caldo di colla animale e gesso preparato a bagnomaria. “E’ vero che in questa prima volta, come vai daendo, così colle dita e colla palma della mano al tondo và ripianando e fregando su per lo gesso dove il poni…quando hai fatto così, ritorna da capo e danne distesamente una volta di pennello, senza fregare più mano. Poi lascialo posare un poco, non tanto che secchi in tutto; e ridanne un’altra volta per l’altro verso, pur col pennello; e lascialo posare a modo usato. Poi ne dà un’altra volta per l’altro verso: e per questo modo, sempre tenendo il tuo gesso caldo, ne dà in su piani per lo meno otto volte”. Questa tecnica descritta da Cennino Cennini verso la fine del Trecento, ma che è ancora più antica, è la stessa che gli iconografi usano ancora oggi!
Occorreva a questo punto lasciare asciugare l’intonaco di colla e gesso, non al sole, e poi lo si levigava consumando quanto serviva a togliere i segni del pennello, sino a renderlo liscio e privo di difetti, quasi come un piano di alabastro.
E la tavola era pronta per iniziare l’icona; la composizione a quel punto era già stata studiata e decisa, il disegno veniva trasferito sul piano immacolato del gesso e “ raffermato con pennello puntìo e inchiostro”.
Il passaggio successivo generalmente consisteva nel dorare, ovvero ricoprire con sottili lamine d’oro, la porzione dell’immagine non occupata dal colore, “ il che si fa in questa maniera: ingessasi il legno con gesso sottilissimo, impastato con colla più tosto dolce che cruda, e vi si dà sopra più mani…Inoltre con la chiara dello ovo schietta, sbattuta sottilmente con l’acqua dentrovi si tempera il bolo armeno, macinato ad acqua sottilissimamente; e si fa il primo acquidoso o vogliamo dirlo liquido e chiaro e l’altro appresso più corpulento. Poi si dà con esso almanco tre volte sopra il lavoro, sino a che è lo pigli per tutto bene. E bagnando di man in mano con un pennello dove è dato il bolo, vi si mette su l’oro in foglia, il quale subito si applica a quel molle. E quando egli è soppasso, non secco, si brunisce con una zanna di cane o di lupo, sinchè è diventi lustrante e bello.”
Con la doratura la parte pittorica in realtà è già iniziata poiché nell’icona l’oro non fa da sfondo, circa il suo significato simbolico spiego altrove.
Per dipingere, ovvero scrivere con i colori, è necessario prepararseli, almeno se si vuole proseguire camminando nel solco della tradizione.
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Questa è una pietra di malachite. |
Nell’antichità le materie prime per i colori erano di origine vegetale, animale, ma prevalentemente minerale, in questo caso le pietre estratte nelle cave venivano macinate e ridotte in polvere ( pigmento).
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L’immagine mostra un garzone
che rompe le pietre in un mortaio di metallo. |
Questi sono i colori citati nei codici e confermati dalle indagini di restauro e che uso anch’io; qualcuno, come il dioptasio, è tipico delle icone russe, perciò me ne servo quando mi viene commissionata un’icona di quella scuola.
È’ vero che oggi le mesticherie specializzate vendono i colori già macinati, ma è accaduto a me come ad altri di dover macinare del lapislazzuli o della biacca, e non di rado si deve provvedere a macinare più finemente gli stessi pigmenti già pronti.
Al pigmento, ovvero la sostanza dotata di colore, si univa il legante costituito dal rosso dell’uovo e si otteneva un’impasto fluido, morbido e stabile. Ed ecco giunto il momento di dare forma visibile ad un mondo diverso, di una sostanza intensamente eterna e trasfigurata, trovato nell’invisibile e tradotto nel nostro visibile attraverso un canone spiritualizzato di regole e simboli.
Penso spesso ai tanti sconosciuti maestri che dall’antichità hanno applicato, perpetuato e arricchito questo inestimabile patrimonio di conoscenze e sono felice che oggi il modo in cui hanno dato forma alla Bellezza conosca una rinascenza. Perchè questa è la Bellezza che non finirà mai.
Al termine della scrittura ( si dice così) dell’icona questa veniva protetta con una strato di olio di lino cotto, questa sostanza penetrando attraverso lo strato di colore lo fissava e lo rendeva più brillante.
Infine l’icona veniva benedetta, secondo formule e preghiere che la Chiesa ha preparato per le sacre immagini. Sono sempre felicissimo quando, al momento della consegna, mi viene espressa l’intenzione di volere far benedire l’icona prima di accoglierla in casa.